Mi è capitato tra le mani un libro scritto nel 1922 da Adolphe Ferrière. Leggendolo, uno come me, ne rimane completamente rapito. Vi lascio con il primo capitolo e vi invito all’acquisto del testo se siete educatori o in qualche modo a contatto con bambini e adolescenti. Cento anni fa si dicevano, si scrivevano e si davano alle stampe parole come queste.
Il titolo del testo è: L’attività spontanea del fanciullo.
Ogni mio altro commento sarebbe del tutto superfluo.
LA STRAGE DEGLI INNOCENTI
“Debbo cominciare con una confessione.
Ricordate, lettori, al tempo della dichiarazione della guerra del 1914 e nei lunghi anni della sua durata qual fremito di pietà e di orrore ci ha tutti assaliti?
Pietà per tanti innocenti spenti nel fior della vita, orrore di tutto il sangue versato, dell’immenso carnaio su cui volteggiavano i corvi, degli ospedali ove rantolavano tanti giovani poco prima ancor pieni di speranza, dei fuggitivi, degli esiliati, degli affamati, della torma dei disperati che coprivano l’Europa, fin dove si poteva giungere com lo sguardo ed oltre.
Parve, allora, che una morsa ci stritolasse il petto, che una tenaglia ci serrasse la fronte: e noi piegammo, crudamente, sull’abisso della sofferenza e piangemmo, impotenti, vinti…
Poi, di slancio, ritrovammo noi stessi, ci rialzammo guardando in faccia la cruda realtà: troppo ci avrebbe pesato rimanere inutilmente inerti. Raddoppiammo allora le nostre energie, organizzammo soccorsi, lavorammo giorno e notte per lenire le sofferenze dei prigionieri di guerra, dei civili colpiti dall’immane tragedia, per confezionare frettolosamente abiti per i bimbi indigenti: migliaia, milioni di creature da sostenere, da circondare di cure. da raccogliere!
Tuttavia, nonostante il lavoro accanito, continuava a pesare su di noi quell’indicibile sentimento di orrore: era come un incubo dal quale non riuscivamo a liberarci. E avremmo voluto risvegliarci, scuoterci, constatare con un lungo sospiro di sollievo che tutto era stato solo un terribile sogno. Invano, ché tutt’intorno non erano che miserie e dolori. Tutti quegli esseri giovani e forti che avevano visto cinque, dieci, venti anni prima giocare, correre, ridere e cantare spensieratamente erano ora stretti in una lotta senza misericordia o piombati nel fango e nella miseria. Per questo le madri li avevano messi al mondo? Per questo li avevano cullati e vezzeggiati? Per vederli gettati in faccia al Moloch della guerra dunque esse li avevano nutriti giorno per giorno, li avevano lavati e vestiti, avevano loro sorriso, avevan teso le braccia ai loro primi passi barcollanti? Per questo essi, più tardi, avevano appreso alla scuola tante cose complicate, cosi restie a entrare nei piccoli cervelli ribelli?
Madri, o madri che avete lavorato e penato, che avete conosciuto la gioia e l’affanno, il riso e il pianto, che avete aspramente lottato per il pane quotidiano e che, tuttavia, serrando i vostri piccoli fra le braccia, poteste credervi un istante le donne più fortunate del mondo; o madri, io mi inchino davanti al vostro dolore, piango con voi e mi dispero con voi. La vostra lotta contro la guerra o l’ingiustizia universale sarà la mia lotta di ogni momento: ve lo giuro.
Lettori, vi ho detto che vi avrei fatta una confessione. Eccola. Assai prima della guerra ho provato quell’identico fremito di spavento e di pietà.
Anni prima della strage dei corpi ho assistito ad un’altra strage, la strage delle anime. Molti attorno me parevano non avvedersene: qualcuno ne aveva il presentimento; ben pochi hanno scandagliato sino al fondo l’abisso d’ignoranza e d’incomprensione che l’hanno resa possibile. Codesta strage degli innocenti, voi l’avete indovinato, è quella che, di giorno in giorno, perpetrava la scuola; è la stessa che, senza averne sentore o avendone ben poco, compivano e compiono tuttora i maestri. Con la coscienza e lo zelo di fedeli operai, con pazienza e accanimento essi mutilavano, e mutilano ancora, le anime dei fanciulli. Sistematicamente, spietatamente, con l’ausilio dello stato e della società, sotto gli occhi dei genitori e di tutte le buone persone che ci attorniano quotidianamente, la scuola prosegue la sua opera di uccisione dello spirito. E di ciò, o madri in gramaglie, io fremo forse ancor piú che della grande e odiosa carneficina della guerra.
Esagero forse? Una constatazione è evidente: la guerra tronca o fa languire prima della morte tante vite umane, è vero; ma altre si risollevano, alcune scampano. Il tempo passa, la vita riprende: già ondeggiano i giunchi sulle buche scavate dagli obici, rinverdiscono i campi straziati dalla mitraglia, si riducono in polvere i rugginosi fili di ferro spinato. Ma la scuola?
Le vittime che essa colpisce non rappresentano solo il cinque o il dieci per cento delle vite umane, ma tutte o quasi.
Tutte le afferra, le domina, le piega. Di tutte la scuola si impossessa per anni e anni. Dove regnava la gioia di vivere mette il tormento; dove trillava la gaiezza impone la gravità; in luogo del movimento spontaneo esige l’immobilita, in luogo dei gridi e dei sorrisi il silenzio. E giustifica tutto ciò in nome della formazione di uomini e donne degni di esser tali!
Ma, in realtà, che cosa è veramente necessario nella vita? La sapienza o la volontà? La sapienza senza la volontà o la volontà indomita che si crea il suo sapere a viva forza, quando e dove occorra? Io dico: la volontà innanzi tutto. Finché vi è volontà di sapere, date il sapere: a tale condizione non è mai troppo; ma se voi me date un granello piú del necessario e la volontà invece di coadiuvare si ribella, se voi la forzate, è finita: il fanciullo si stacca da voi, dalle vostre parole, persino dal vostro amore: si allontana per sempre dai tesori che volevate mettere a sua disposizione, di cui contavate farlo profittare.
Oppure, ciò che è peggio, egli si sottomette, è consenziente, assorbe passivamente, pare voglia abdicare ad ogni autonomia. Ma non illudetevi: lentamente, segretamente, la sua natura si sdoppia. Credete di avere sotto gli occhi un unico fanciullo, mentre in realtà ne avete due: uno docile ossequiente umile, vuota apparenza, immagine ipocrita; l’altro, quello che non vedete e sul quale non avete influenza alcuna, che vi sfugge, che vive la sua vita, che si forma da sé dove e come può. E il giorno in cui vi lascia per sempre, in cui sbatte la porta della suola, in cui sfugge ai genitori, quel giorno tutto ciò che ha fatto o detto nella veste di scolaro saggio svanisce: solo rimane, solo se ne va nella vita a suo rischio e pericolo, l’altro, l’indocile, l’indisciplinato, l’impulsivo, l’ineducato, il selvaggio.
Egli sarà ciò che l’ha fatto la natura: buono o malvagio, onesto o furfante, serio o pazzo. L’eredità e l’istinto lo guideranno, non voi. Perché è inutile che vi vantiate o vi rammarichiate se egli prende una cattiva piega, non siete voi che l’avete formato; tutt’al più lo avrete deformato. Famiglia o scuola, sovvenzionata o meno dallo stato o dalla chiesa, ecco i frutti della vostra opera, ecco le conseguenze, per tutta la società, dell’ignoranza dei principi della ragione e della natura. La psicologia vi mostra le leggi di un sano sviluppo; ignorandole, calpestandole come fate, non potete che fallire il vostro scopo.
Posso apparirvi ingiusto? Ma questa è la verità, anche se avete la pretesa di educare alla ragione e alla sana moralità. Siete convinti di formare la volontà perché domate le nature ribelli, perché stroncate i capricci. Sono i fanciulli a vincersi da sé, o siete voi che ve li costringete con le vostre punizioni, le vostre minacce? E quand’anche foste riusciti a rendere uno di questi piccoli buono come un santo – ammesso che rimanga sempre tale – siete sicuri che codesta forma assolutamente negativa di volontà sia la vera? La vita non è forse di coloro che hanno una volontà positiva, conquistatrice, che si tramuta in azione e si effonde in energia, con un lampo nello sguardo e l’ampio respiro nello sforzo gioioso?
Sono ingiusto? lo non accuso nessuno. Anzi, so bene quali tesori di bontà e di pazienza son racchiusi nel cuore di migliaia di educatori e so l’abnegazione del padri e il sacrificio delle madri. Quanti ne ho conosciuti che venivano a chiedermi: «Come fare? Do ai miei ragazzi il mio tempo, le mie cure, la mia giornata, le mie notti, ogni mia forza, ogni mia speranza. Ma essi vivono la loro vita, s’impennano davanti alle minacce, oppongono la loro ragione alla nostra di adulti. Non comprendono che è per il loro bene. Che fare? Se imponiamo la nostra volontà è una lotta di tutti giorni; se cediamo è peggio: divengono sfrontati presuntuosi».
Ecco quello che mi hanno detto padri, madri, educatori. A tutti ho risposto ciò che credevo giusto e vero. Ho risposto che a nulla giova in verità mortificare, imporre, forzare, esortare e punire. Quasi sempre a codesti tentativi contro natura corrisponde un insuccesso. D’altra parte cedere ai capricci è certamente la cosa peggiore. E allora?”